[a cura di P. Antonello e A. O’Leary, Modern Humanities Research Association-Maney Publishing, London 2009]
C’è voluto del tempo perché al numero sempre più grande di film, fiction televisive, romanzi, racconti, memoriali, ricostruzioni giornalistiche, libri-intervista sul terrorismo rosso e nero dei cosiddetti anni di piombo inziasse a corrispondere un interesse critico di una qualche entità. Dopo un capitolo di Settanta di Belpoliti, sono arrivati Schermi di piombo e Il terrore corre sul video, a cura di Uva, Una tragedia negata di Paolin, Libri di piombo di Tabacco; né è un caso che in All’ordine del giorno è il terrore Giglioli abbia scelto di dare al nostro paese un ruolo marginale.
Viene invece da un convegno tenuto a Cambridge già nel 2004 Imagining Terrorism, a cura di Antonello e O’Leary, autore anche di un bel libro, Tragedia all’italiana: cinema e terrorismo tra Moro e memoria. Come mai questo ritardo, che neppure il trentennale dell’omicidio Moro ha scosso? Imagining Terrorism dà una risposta implicita: anzitutto, nel racconto sulla «Political Violence in Italy» (questa la formula opportunamente preferita a quella di ‘terrorismo’) la letteratura ha un ruolo secondario. Ho contato più di centocinquanta titoli di libri di narrativa, finzionale o nonfinzionale, prodotti su questo tema a partire dal 1969; e nessuno di questi, tranne forse L’affaire Moro di Sciascia, si è imposto come il libro su quegli eventi.
Così, se gli studiosi di questo volume debbono condividere un oggetto su cui dibattere, preferiscono confrontarsi su Buongiorno, notte di Bellocchio, o sulla Meglio gioventù di Giordana. E dire che hanno raccontato il terrorismo gli scrittori italiani più noti, anche se qui appaiono citati di rado, o non sono citati affatto: penso allo stesso Sciascia, a Pasolini, a Calvino, a Volponi, a Balestrini, a Ortese, a Parise, sino a Vassalli, a Eco, a Tabucchi, a De Luca, per arrivare a una vera e propria moda diffusasi negli anni Novanta soprattutto nel noir, e aperta già vent’anni prima da Macchiavelli. In qualche misura, questo silenzio è legittimo.
Se esiste un “racconto sociale” sul terrorismo, in esso la letteratura ha un ruolo secondario. E quindi, è giusto volgere l’attenzione alle scritture autobiografiche degli ex-terroristi (come fanno Rachele Tardi e, per i neofascisti, Anna Cento Bull), o riesaminare direttamente gli scritti di Moro durante la prigionia (David Moss). Se davvero è un trauma collettivo, il terrorismo non poteva essere raccontato che attraverso figure di spostamento, occultamento, rimozione. Nell’introduzione, i curatori ripercorrono le tre principali strategie adottate: il modello edipico, che cancella la storia sociale e politica a vantaggio di un mito antropologico sovratemporale (lo mostra bene Tricomi); il modo cospirativo, le cui ambiguità ideologiche e la cui natura postmoderna sono messe in luce da O’Leary; il modello sacrificale che, sulla scorta di Girard, consente ad Antonello di leggere in parallelo e in contrasto gli omicidi di Pasolini e di Moro.
Non stupisce allora che sul terrorismo manchi una memoria condivisa, come osservano molti; ma forse non c’è neppure da rimpiangerne l’assenza, se instaurarla vorrebbe dire nascondere, in buona o in cattiva fede, conflitti reali e ferite aperte. Imagining Terrorism finisce dunque per mostrare l’insufficienza della letteratura davanti alla storia, e quanto essa sia stata scalzata o dalla non fiction, o dal cinema e dalla televisione. Eppure, questo non spiega ancora come mai, nel nostro paese, nonostante i dibattiti d’occasione per questo o quel film, si stenti a produrre una riflessione complessiva. È una rimozione politica? I critici letterari sono così timorosi, mentre registi e scrittori abusano addirittura di un tema che sembra garantire un’audience immediata? O forse la critica teme di guardare oggetti che rivelano l’incapacità della scrittura di comprendere la storia proprio mentre si affanna a inseguirla e, quindi, le ragioni del suo stesso declino?
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